Uno studio di due ricercatrici dell’Università di Catania prevede l’uso di materiali filtranti innovativi, tra cui i depositi piroclastici dell’Etna, come substrato dei sistemi di fitodepurazione per il trattamento dei reflui urbani.
Le ricercatrici Alessia Marzo e Delia Ventura, coordinare dal prof. Giuseppe Luigi Cirelli del Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania, insieme con i docenti Germana Barone e Paolo Mazzoleni e con il ricercatore Claudio Finocchiaro del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche ed Ambientali dell’Università di Catania, nell’ambito del progetto Agritech, finanziato dall’Unione Europea Next-Generation EU (Pnrr – Missione 4 componente 2, Investimento 1.4), stanno valutando l’impiego di materiali filtranti innovativi, tra cui i depositi piroclastici dell’Etna, come substrato dei sistemi di fitodepurazione per il trattamento dei reflui urbani.
In particolare, l’obiettivo dell’progetto Agritech è l’individuazione di substrati a basso costo, preferibilmente provenienti da processi produttivi e cicli di recupero, dalle elevate prestazioni di trattamento al fine di ridurre l’impronta areale (footprint) dei sistemi di fitodepurazione e di incrementare la loro sostenibilità.
Le recenti attività parossistiche dell’Etna hanno depositato su una vasta area tonnellate di cenere e lapilli; in base alla recente ordinanza della Città metropolitana di Catania, le ceneri vulcaniche che cadono nelle aree e strade extraurbane possono essere raccolte e smaltite come materiale inerte, assimilata a terra e rocce non contenenti sostanze pericolose, presso gli impianti autorizzati al recupero di rifiuti inerti, comportando una gestione onerosa per le comunità locali.
Per rendere più sostenibile l’implementazione della fitodepurazione, l’utilizzo di prodotti di scarto quale substrato per gli impianti di fitodepurazione, come le ceneri vulcaniche dell’Etna, oltre a contribuire a risolvere i problemi di smaltimento, eviterebbe di prelevare e acquistare materiali dalle cave, mantenendo inalterato il territorio e risparmiando sui costi di realizzazione.
I sistemi di fitodepurazione, noti anche come “aree umide artificiali” (constructed wetlands), sono ecosistemi artificiali in cui vengono riprodotti, in un ambiente controllato, i processi di depurazione caratteristici delle zone umide ottenuti prevalentemente dall’azione combinata di suolo, vegetazione e microrganismi. Tali sistemi presentano diversi vantaggi, come basso o nullo consumo energetico, semplicità di funzionamento e manutenzione, bassi costi di gestione e manutenzione, trattamento efficiente delle acque reflue e affidabilità anche in condizioni operative estreme.
Le suddette caratteristiche rendono i sistemi di fitodepurazione particolarmente indicati per il trattamento dei reflui urbani di piccole e medie comunità sia nel caso dello scarico in corpi idrici e sul suolo sia nel caso di riuso agricolo degli effluenti. Tali sistemi sono in grado di soddisfare i requisiti stabiliti dalla nuova direttiva UE sul trattamento delle acque reflue urbane.[1]
Nell’ambito del progetto Agritech, sono stati preliminarmente svolti test di cessione metallica e valutate la stabilità chimica (pH e conducibilità elettrica) e le caratteristiche idrauliche (conducibilità idraulica e porosità) di due granulometrie di ceneri vulcaniche dell’Etna, di un geopolimero di nuova sintesi realizzato con cenere vulcanica e biochar mediante un processo ad attivazione alcalina (AAM – materiale ad attivazione alcalina) e materiale di scarto derivante da attività di costruzione e demolizione di opere edili (sfabbricidi).
Sulla base dei dati preliminari, i materiali testati hanno dimostrato di avere caratteristiche idrauliche e chimico-fisiche idonee per essere impiegati nei sistemi di fitodepurazione.
Attualmente, al Di3A – Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania, è in corso un’attività sperimentale su un impianto di fitodepurazione a scala prototipale, in cui vengono effettuate delle prove su colonne che simulano i sistemi di fitodepurazione a flusso superficiale verticale, riempiti con i materiali sopra citati. Le prove in corso per valutare le prestazioni depurative di tali substrati prevedono l’uso delle acque reflue provenienti dallo stesso dipartimento, sottoposte preliminarmente ad una sedimentazione primaria tramite fossa Imhoff.
Le colonne sono sottoposte ad un diverso carico idraulico fino a 300 mm/giorno (equivalente di 300 litri/m2). Materiali simili, come la sabbia vulcanica (0-6 mm) e il biochar non aggregato, testati in precedenti progetti di ricerca della sezione Idraulica e Territorio del Di3A, hanno già fornito prestazioni di trattamento molto elevate per la rimozione della sostanza organica (>90%), espressa come COD, e la riduzione di microorganismi patogeni quali E. coli (fino a 9 log10 CFU 100mL-1).
[1] Direttiva del 10 aprile 2024 che impone l’obbligo di applicare un trattamento secondario alle acque reflue urbane in tutti gli agglomerati a partire da 1.000 abitanti equivalenti entro il 2035 e che gli impianti di trattamento delle acque reflue urbane devono raggiungere l’obiettivo di neutralità energetica (produrre energia da fonti rinnovabili) entro il 2045.
fonte: Uni CT Magazine, testo di Alessia Marzo e Delia Ventura