Che cos’è il progetto LITMUS e come potrebbe cambiare le vite di soffre di NAFLD
Il gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Torino, coordinato dalla Prof.ssa Elisabetta Bugianesi, è il leader italiano del progetto internazionale LITMUS (acronimo di Liver Investigation: Testing Marker Utility in Steatohepatitis), finanziato con 34 milioni di Euro dalla Comunità Europea nell’ambito della European Innovative Medicines Initiative 2 Joint Undertaking (IMI2), che riunisce medici e scienziati di importanti centri accademici in tutta Europa insieme ad aziende della Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche (EFPIA). Obiettivo comune del progetto è lo sviluppo e la diffusione di più accurati biomarcatori di danno epatico da utilizzare nella NAFLD.
Il progetto LITMUS include 47 partner di ricerca con sedi presso importanti università internazionali ed alcune delle più grandi aziende farmaceutiche del mondo. LITMUS è coordinato dall’Università di Newcastle, U.K., che lavora a stretto contatto con il partner principale EFPIA, Pfizer Ltd.
In Italia, guidati dall’Università di Torino, partecipano al progetto le università di Milano, Firenze, Palermo, il CNR di Pisa, l’Università Politecnica delle Marche e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
LITMUS è un pionieristico progetto di ricerca europeo che si propone di individuare e mettere a punto nuovi test diagnostici per valutare i pazienti con steatosi epatica non alcolica (NAFLD), allo scopo di identificare quelli a maggior rischio di sviluppare una epatite cronica con grave infiammazione e fibrosi (cicatrici) nel fegato.
La NAFLD, che colpisce il 20 – 30% della popolazione mondiale, è causata da un accumulo di grasso nelle cellule del fegato, che in alcuni casi può determinare infiammazione, fibrosi del tessuto epatico e infine cirrosi. La NAFLD è fortemente associata all’obesità e al Diabete di tipo 2. Sebbene molte persone abbiano una NAFLD, solo uno su 10 svilupperà una malattia di fegato severa.
La sfida consiste nell’identificare gli individui maggiormente a rischio di progredire verso la cirrosi epatica o il cancro del fegato (epatocarcinoma), in modo da poter intervenire prima dello sviluppo della cirrosi. Al momento questo è possibile solo effettuando una biopsia epatica, un esame invasivo che può essere effettuato solo in centri specializzati; è quindi di fondamentale importanza disporre di test accurati, non invasivi e disponibili a tutta la popolazione.
Il professor Quentin Anstee, del Newcastle University’s Institute of Cellular Medicine, coordinatore del consorzio, ha dichiarato in un’intervista: “La steatosi epatica non alcolica è già la principale causa di trapianto di fegato negli Stati Uniti e, con la diffusione crescente di obesità, lo diventerà probabilmente presto anche in Europa”.
“LITMUS” ha aggiunto “unirà medici ed esperti accademici provenienti da centri di tutta Europa con scienziati delle principali aziende farmaceutiche, accomunati dall’intento di sviluppare e convalidare nuovi biomarcatori e tecniche di indagine radiologica in grado di diagnosticare la gravità della patologia epatica, prevederne la eventuale progressione e monitorare tale processo”.
Un fegato sano dovrebbe contenere poco o niente grassi, tuttavia, 1 su 3 persone in Europa ha una NAFLD, cioè una quantità eccessiva di accumulo di grasso nel fegato, simile a quello causato dall’alcol, ma in assenza di consumo di alcol. Anche se la NAFLD non sempre causa danni, in alcuni pazienti può trasformarsi in una forma infiammatoria chiamata steatoepatite non alcolica (NASH) che a sua volta provoca la formazione di tessuto cicatriziale fibroso nel fegato e può evolvere in cirrosi. La NASH può anche aumentare il rischio di cancro primario del fegato (epatocarcinoma) e di eventi cardiovascolari come infarto e ictus.
“Ora che l’Epatite C è in via di risoluzione grazie all’efficacia dei nuovi trattamenti, la NAFLD ed in particolare la NASH, la forma che può evolvere fino allo stadio di cirrosi epatica, rischia di prenderne il posto per il numero di pazienti potenzialmente affetti e per il suo legame con l’obesità ed il Diabete di tipo 2” ha dichiarato la Prof.ssa Bugianesi “Questo contributo della Comunità Europea ci consente di riunire accademia ed industria, fornendo una reale speranza di compiere progressi significativi nella diagnosi e nel trattamento di questa malattia sempre più comune e spesso misconosciuta o sottovalutata”.
Fonte Università di Torino