Quella della durata della copertura vaccinale è una delle questioni maggiormente dibattute nel mondo scientifico. Gli studi parlano di uno «scudo» di 9-12 mesi.
È uno dei temi al centro del dibattito scientifico: quanto può durare l’immunità nelle persone risultate positive al Covid-19? Attualmente non è ancora possibile avere una risposta certa perché, come sottolinea il professor Mario Clerici, ordinario di Immunologia all’Università Statale di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, i dati a disposizione sono comunque limitati e occorrono periodi di osservazione più lunghi.
La copertura anticorpale, in questi soggetti, sembrerebbe durare almeno 9-12 mesi.
Dall’altro lato, gli studi fin qui prodotti sono abbastanza concordi nell’affermare che i vaccini sono un’arma affidabile, con un’efficacia che varia dal 70-80% nei vaccini a vettore virale, e una ancora maggiore, tra il 90-95%, nei più innovativi vaccini a Rna messaggero. Inoltre, tutti i vaccini disponibili sono in grado di proteggere al 97% dalle forme gravi di Covid-19 e questo è uno degli aspetti più importanti per ridurre notevolmente l’ospedalizzazione e la mortalità nelle persone positive a SARS-CoV-2.
A partire da quando è efficace il vaccino
Il primo dato da cui partire è che tutti e quattro i i vaccini autorizzati finora in Italia (Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Johnson & Johnson a cui potrebbe aggiungersi quello a proteine ricombinanti di Novavax) è che la risposta indotta dalla prima dose di vaccino comincia a essere efficace 7-10 giorni dopo.
“Ma questa è immunologia di base, perché ogni volta che si giunge a contatto con un batterio o virus nuovo si ha una risposta dopo 7-10 giorni“, precisa Clerici. Uno studio pubblicato il 27 aprile scorso sul British Journal of Medicine (BMJ) sui vaccini Pfizer e AstraZeneca ha dimostrato come la piena efficacia si raggiunga dopo 28 giorni dall’inoculazione e lo stesso discorso vale per Johnson & Johnson.
La risposta anticorpale
Per quanto riguarda la risposta anticorpale, a gennaio sono stati pubblicati tre lavori, su Science, Science Immunology e Nature, che registrano proprio questa tendenza: gli anticorpi, pur persistendo per un periodo di almeno sei mesi, decadono nel tempo. Tuttavia questo non vuol dire che l’organismo umano, in caso di successiva nuova esposizione al virus, si ritrovi senza protezione.
La memoria immunologica si basa su meccanismi articolati e la capacità di riattivazione delle cellule B e dei linfociti T rappresenta una risorsa molto importante, anche se varia parecchio da una persona all’altra. L’obiettivo degli studi era quello di analizzare in che modo tutti i componenti della memoria immunitaria evolvessero nel tempo.
I risultati hanno mostrato che la risposta è ancora presente a distanza di otto mesi dall’infezione e che il prevedibile calo del titolo anticorpale, già osservato in precedenti ricerche, è compensato dal lavoro delle cellule della memoria che non lasciano l’organismo indifeso.
Risposta più alta se si vaccina chi ha superato il Covid
Ma non basta. Come spiega il professor Clerici “gli ultimissimi dati, quelli pubblicati anche su Nature pochi giorni fa sono molto positivi perché i ricercatori sono andati a misurare la risposta anticorpale sia nei vaccinati sia in coloro che hanno superato il Covid, ed è ulteriormente migliorata se i guariti dal Covid ricevono almeno una vaccinazione. Comparando la vaccinazione omologa e eterologa si è visto che c’è una persistenza degli anticorpi che è comparabile nei vaccinati e in coloro che hanno superato il Covid. Dunque il primo messaggio che possiamo dare in base a questo studio è: se vacciniamo chi ha superato il Covid, la risposta a nove mesi è molto più alta. Quindi meglio vaccinare chi ha superato il Covid perché diamo una grossa spinta alla vaccinazione. Il secondo messaggio è che in termini di potenza di persistenza funziona meglio la vaccinazione eterologa (cioè con due vaccini diversi,ndr). Nello studio hanno fatto la prima dose AstraZeneca e la seconda Pfizer, li hanno confrontati e poi comparati con la doppia dose AstraZeneca: ebbene funziona nettamente meglio la vaccinazione “incrociata” AstraZeneca e Pfizer”.
La «memoria» delle plasmacellule
Un’ulteriore, e più interessante conferma sulla durata della risposta immunitaria dopo le vaccinazioni è arrivata da un altro studio pubblicato sempre su Nature.
“In questo caso sono andati a studiare non tanto gli anticorpi quanto le plasmacellule midollari, le cellule di memoria che vanno a insediarsi nel midollo osseo e producono poi anticorpi. E hanno visto che le plasmacellule midollari dopo tre mesi dall’infezione o dopo nove mesi dall’infezione sono persistenti, non diminuiscono e la loro quantità è comparabile alle plasmacellule midollari che sono indotte dalla vaccinazione per il tetano piuttosto che per l’influenza. Essenzialmente quindi c’è una risposta immune potente a livello di memory cell“.
Che cosa si può concludere sulla base di questi dati? “Il messaggio è: gli anticorpi possono anche diminuire, e la gente si preoccupa di questo, ma gli anticorpi sono prodotti solamente se servono. Quindi a distanza di nove mesi dalla guarigione dal Covid, gli anticorpi sono più bassi perché non mi servono. Serve però che ci siano le plasmacellule che riproducono immediatamente gli anticorpi al verificarsi di un secondo contatto con il virus“.
La variante Delta: terza dose, sì o no
La questione della durata dell’immunità è importante anche alla luce dell’avanzata della variante Delta. Negli Stati Uniti, alcuni esperti americani propongono una terza dose di vaccino Rna messaggero per le persone sopra i 65 anni o con sistema immunitario indebolito.
Le autorità regolatorie statunitensi, Fda e Cdc, per ora lo ritengono prematuro. E nella stessa direzione si è pronunciata Ema, l’Agenzia europea del farmaco. “Per il momento i dati sull’utilità e sull’opportunità sono un po’ dubbi — fa presente Massimo Galli, primario di Malattie infettive all’ospedale Sacco e professore all’università Statale di Milano — . Alcuni lavori dicono che sì, un’ulteriore dose aumenta l’espressione degli anticorpi ma non ne migliora la qualità in quelli che sono già stati infettati e che non c’è ancora uno straccio di dato per quanto riguarda quelli che hanno fatto due dosi e si deve decidere che cosa fare di loro“.
“Con i dati che abbiamo oggi non dovrebbe servire se non in casi particolari — gli fa eco Mario Clerici —, nei soggetti immunodepressi, perché la memoria immunologica indotta dalle prime due dovrebbe essere sufficiente”.